mercoledì 4 luglio 2012

Agosto

Pubblicato in "Racconti", Nicola Pesce Editore


Quella maledetta mattina del 2 agosto 1980 Stefano sentì lo scoppio della bomba alla stazione di Bologna fin dai portici dell’università, dove era insieme ad altre centinaia di ragazze e ragazzi come lui a cazzeggiare, a fumare, a prendere un caffè al bar in piazza. Lezioni ed esami erano finiti, ma ci si continuava a trovare lì davanti, in attesa di partire per le vacanze. In un primo momento nessuno capì cosa fosse successo. Poi, man mano che i minuti passavano, iniziò a filtrare qualche notizia. Infine, la paura, lo sconcerto, le mani nei capelli, che i ragazzi portavano ancora lunghi come negli anni’70 appena terminati, oppure a cresta per chi seguiva l’ondata punk arrivata da Londra nel ‘77. Anni duri a Bologna: contestazioni, violenza, autonomi, ma anche radio libere, creatività, pensieri e parole che così bene aveva raccontato Tondelli nei suoi romanzi. E il 2 agosto 1980 la strage, un’azione con un obiettivo senza nome né cognome, il sacrificio di vittime innocenti, il cuore del terrorismo nero in una città da sempre sintonizzata sull’opposta fazione.

Mille idee confuse e ad alta voce tra i ragazzi sotto i portici dell’università: andiamo in stazione, ma no che ci andiamo a fare, andiamo a sentire il tg, occupiamo il comune, che cazzo dite andiamo ad aiutare chi è sotto le macerie, ma che aiuto possiamo dare. In quel casino di opinioni lanciate al vento, Stefano guardò inconsciamente l’ora. Le undici meno un quarto. “Cazzo, venti minuti fa Chiara aveva il treno per Ferrara. Cazzo!”. Stefano si mise a correre, seguito dal suo amico Davide, che aveva capito subito dove fosse diretto. Non furono gli unici a correre verso la stazione, in quei minuti cominciò un pellegrinaggio frenetico e costante verso quel nodo di scambi ferroviari diventato poco prima un crocevia di morte. Quando arrivarono nel piazzale, videro davanti a sé il caos. I primi soccorsi, i primi volontari, tutti che urlavano di far largo, che scacciavano le persone inutili. E Stefano e Davide si sentirono totalmente inutili (...)

Stefano provò a cercare Chiara con lo sguardo. Impresa non facile, in quel cumulo di macerie, corpi inerti e persone in piedi. Mezz’ora, un’ora, due ore. Un’afa e un sole insopportabili. Si avvicinò quanto più possibile ai mezzi di soccorso, parlando con la gente, cercando di capire. Finchè, purtroppo, vide adagiata su una barella l’unica persona che non avrebbe mai voluto vedere.
Stefano si precipitò dai barellieri. “La conosco, è la mia ragazza. Per favore, fatemi salire”.
“Sei matto? Non vedi che non parla nemmeno? Lascia fare a noi, non c’è tempo da perdere”.
“Voglio venire con voi”.
“Per favore. E voi che guardate? Sgombrate. Sgombrate!”
“Chiara!”
Due uomini saltarono addosso a Stefano per calmarlo e dissuaderlo dal salire in ambulanza. Lui, piccolo e magro, si agitava come un demonio. “Ditemi almeno dove la portate!”
Uno dei due uomini gli rispose “Al Policlinico. Ora stai calmo, non puoi fare niente per lei. Loro sì. Stai calmo”.
Stefano tremava di freddo, nonostante i 35 gradi all’ombra e il sudore che cospargeva quasi tutta la sua maglietta. Guardò Chiara un’ultima volta, fino a che la porta dell’ambulanza fu chiusa e le sirene azionate. Continuava a strattonare i due uomini che lo tenevano fermo. In quel momento Davide riuscì finalmente a raggiungerlo, sgomitando fra la folla. Stefano lo abbracciò con tutta la sua forza, piangendo e imprecando. “La devono salvare. Cosa ha fatto di male? Che gli ha fatto a sti bastardi? Io li ammazzo! La devono salvare…”

***

Stefano aveva conosciuto Chiara poco meno di un anno prima ad una festa degli studenti di architettura del suo corso, in un locale di solito frequentato da gente del Dams, compresa Chiara, che studiava recitazione. Un paio di sguardi e di sorrisi, poi qualche brano di Clash e Police e una quantità di birra superiore al solito avevano fatto il resto. Entrambi in linea con l’atmosfera libertina di quegli anni, non avevano aspettato molto tempo per scoprire fino in fondo i loro corpi in camera di Stefano, che divideva un appartamento con due suoi compagni di architettura. Entrambi erano attratti dalla “movida” bolognese e dalla ventata di rinnovamento di quegli anni. Entrambi erano comunque ottimi studenti, attenti all’umore del periodo, alle mode del momento, ma nulla di particolarmente illecito, eccetto le serate con contorno di spinelli a casa di uno o dell’altro, peraltro normalissime in quel periodo. Ragazzi come tanti. Persone come tante. E proprio quelle persone erano state colpite a freddo e senza motivo il 2 agosto 1980.

Stefano e Chiara avevano deciso di trasformare una normale serata di sesso in un rapporto più intenso, con ovviamente tutte le incongruenze di una relazione tra ventenni, profonda quanto fragile, passionale quanto velleitaria, vivendo in un ambiente come quello dell’università, divertente e senza troppi pesi sulle spalle, se non l’angoscia della notte prima di un esame.
Stefano era secco e nervoso, con uno sguardo attento e scattante come quello di un felino, i capelli biondi a spazzola, la parlata rapida. Ricordava, anche se più carino e meno svitato, la buonanima di Nik Novecento. Di Chiara si poteva dire che fosse rassicurante, materna, anche a vent’anni. Calma, posata, sorriso spontaneo, un fascino discreto che emergeva man mano che la si guardava. Tutto il fuoco che aveva in corpo lo sfogava durante le lezioni di recitazione. Nessuno pensava a prima vista che lei potesse essere un’attrice drammatica, ma questa era la sua vera natura, che esprimeva sul palco, a teatro. E Stefano ne era affascinato. In comune avevano la voglia di catturare l’immaginazione e trasformarla in materia, in energia, in rappresentazione. Stefano progettando edifici, Chiara recitando spettacoli.
Entrambi percepivano che tutto sarebbe potuto accadere in quella Bologna divertente, trasgressiva, anche un po’ pecoreccia. La Bologna degli Skiantos, del cinema d’autore, dell’orgoglio gay, la Bologna di chiunque la volesse vivere. E poi, la strage. Vita e morte. Paura e voglia di reagire.
La strage, oltre a tenere la vita di Chiara appesa a un filo, aveva di colpo catapultato Stefano nella vita reale, faccia a faccia con l’incerto, con un nemico invisibile quanto pericoloso da affrontare. Stefano diventerà un uomo non per essere stato a letto mille volte con Chiara e prima ancora con una manciata di altre ragazze, ma perché dovrà affrontare un evento che per forza di cose lo avrebbe trasformato per sempre.

***

“Davide, tutto stazionario. Chiara è sempre grave, la devono portare via”.
“Come via? Perché?”
“In Francia, in un centro specializzato, o come cazzo dicono loro. Si salverà, ne sono sicuro, ma chissà quando”.
“Vacci pure tu”.
“Sì, bravo: e che ci vado a fare? Come mi mantengo? Cosa posso fare lì? E come la posso aiutare? E quanto durerà? E se poi manco mi riconoscesse più?”
“Ma che dici?”
“La verità dico. Non facciamoci storie inutili. Me l’hanno portata via per sempre, questa è la realtà. E la devo accettare. Forse, meglio adesso che fosse successo tra vent’anni”.
“Non ti riconosco, Stefano. Non sei tu che stai parlando”.
“Invece sono io. Non posso combattere contro un fantasma. Non posso prendermela con il vuoto. Chiara deve pensare a vivere, ad uscirne fuori. Io devo semplicemente pensare ad andare avanti. Senza di lei”.
“E che cosa pensi di fare?”
“Non lo so ... non lo so”.

***

LA TERZA ROMA SI DILATERA’ SOPRA ALTRI COLLI LUNGO LE RIVE DEL FIUME SACRO SINO ALLE SPIAGGE DEL TIRRENO

Quante volte Stefano aveva letto questa scritta incisa lungo tutto un palazzo all’Eur, in piazzale dell’Agricoltura.
Stefano non pensava che l’Eur fosse così bello finché non lo aveva visto di persona, anche se leggendone la storia e i criteri di progettazione, era stato sempre affascinato dallo stile, dalla pulizia e dalla razionalità delle linee, dall’idea di aver realizzato dal nulla un quartiere dapprima isolato e poi richiestissimo, simbolo di un’ideologia che lui non condivideva, ma allo stesso tempo esempio di come una (ormai ex) periferia sarebbe sempre dovuta essere. E poi gli edifici di rappresentanza: semplici quanto eleganti, imponenti, metafisici.
Era andato a lavorare all’Eur per il suo primo progetto importante da architetto e da allora era rimasto a Roma, felice di aver trovato un valido pretesto per fuggire da una Bologna che dopo la strage non riusciva più ad amare come prima. A Roma si era ovviamente buttato a capofitto nel progetto, lavorando senza quasi avvertire la fatica, godendosi pochissimo la città almeno per i primi sei mesi. Inizialmente aveva condiviso un bilocale vicino a San Paolo con un collega e poi, più il progetto andava avanti e più il suo reddito si faceva sicuro, era andato ad abitare da solo, sempre in zona, non soltanto perché comoda rispetto al lavoro, ma perché per lui San Paolo era un meraviglioso punto di riferimento. La basilica delle quattro maggiori più decentrata e quindi meno conosciuta, ma bella da mozzare il fiato. Per Stefano, San Paolo non era la potenza della chiesa, come San Pietro o San Giovanni, ma l’unione del bello con la fede.
A Roma era arrivato a trent’anni, quindi più preparato per affrontare con spalle robuste una città infinitamente più grande della sua. L’aver conosciuto Paola, sua moglie, un paio d’anni dopo essersi trasferito, aveva ovviamente facilitato le cose. Per tutti gli anni novanta, la vita di Stefano fu contrassegnata da una sola parola: cambiamento. Roma, il lavoro intenso quanto gratificante, la prima casa da solo, Paola, il matrimonio freak con tuffo finale al tramonto davanti alle dune di Capocotta, l’attico a Monteverde ricavato da un ex lavatoio che lui aveva ristrutturato da capo, le prime trasferte all’estero, la gioia di stare per diventare padre di Francesco, il primo giorno di scuola del suo unico figlio.
Bologna era sempre più lontana. E Chiara ovviamente con lei, anche se Stefano non l’aveva mai dimenticata. Ne aveva parlato spesso a Paola, non avrebbe potuto non farlo. Ogni tanto ripensava a quel giorno e si adombrava, cambiava espressione, diventava taciturno. Paola lo sapeva e lo coccolava, spesso asciugandogli le lacrime che lui, da uomo che aveva patito un dolore enorme, non si vergognava di svelare alla sua compagna di vita. Anche a Francesco, diventato più grande, gliene aveva parlato, con semplicità, senza giri di parole, come quando gli raccontava le storie delle Mille e una Notte oppure come si faceva a costruire una casa.

A Bologna ogni tanto tornava dai suoi, ormai anziani e senza più voglia di viaggiare fino a Roma per stare qualche giorno a casa sua. Spesso ci andava insieme a Francesco, sempre contento di farsi una gita dai nonni, che lo rimproveravano bonariamente per il suo accento. “Sembri il figlio di Christian De Sica”, gli dicevano. Francesco rideva. Mai però Stefano era ritornato davanti all’università o al palazzo dove abitava Chiara. Non ne aveva mai avuto la forza, o il coraggio. O forse soltanto la volontà.

***

Estate 2003.
Stefano e Paola stanno abbronzandosi su una spiaggia del Circeo. Francesco, che non resiste al sole per più di dieci minuti, sta facendo un bagno, dotato di maschera e pinne d’ordinanza. Stefano si sta lamentando con sua moglie di stare perdendo i capelli ormai a manciate. “Ho solo quarantacinque anni, mica così tanti. Guarda, è uno squallore”.
“Se ti fai un trapianto, chiedo il divorzio. Piuttosto rasati completamente, saresti molto sexy”.
“Sì, come i ragazzini davanti alle discoteche. Ma dai! Pensa mia madre che faccia farebbe!”
“A proposito, il prossimo weekend vogliamo andare dai tuoi? Poi partiamo per il Messico e non li vediamo più per un mese”.
“Sì, potremmo farlo. Noi partiamo il 5 agosto, vero? E sabato è il…oddio, sabato è il…”
“Che c’è, Stefano?”
“Sabato è il 2”.
“E allora? Lo so che è il…ho capito”.
“Proprio sabato 2. Io già quella città non la sopporto più. Quel giorno ci sarà la solita aria da funerale, il solito discorso alla stazione. Da ventitre anni”.
“Non sei mai andato a sentirne uno”.
“No, mai. Mi sono sempre rifiutato, finché vivevo a Bologna. Ma perché me lo chiedi?”
“Così”.
Stefano guarda Paola, la fissa. I due non si parlano per parecchi minuti. Paola riprende a leggere il libro che si era portata in spiaggia. Stefano si accende una sigaretta e guarda il mare all’orizzonte. Poi si volta verso Paola e dice “Hai ragione, devo andare”.
“Guarda che non è questione di ragione o torto. Sei tu che ti devi sentire di farlo oppure no”.
“Me la sento. Devo sconfiggere questa cosa per sempre”.
“Da solo?”
“Da solo”.
Francesco arriva alle spalle di suo padre senza farsi sentire e gli rovescia sui suoi pochi capelli un bicchiere d’acqua salata. Stefano si volta, ride e si mette a rincorrerlo per la spiaggia.

***

85 morti e 200 feriti. Cittadini ignari di ciò che a loro stava accadendo, cittadini traditi da chi doveva, per ruolo istituzionale e morale, vegliare su di loro.


Alle 10 e 25, puntuale come ogni anno, il discorso nel piazzale della stazione di Bologna. Stefano è arrivato appena in tempo per l’inizio. Si guarda in giro, impacciato, teso. Non riconosce nessuna faccia amica, per fortuna. Vuole misurarsi con se stesso senza dover rendere conto a qualcuno. Agosto non mente mai a Bologna. L’afa e il caldo sono identici a quella mattina di ventitre anni prima.


Nel manifesto di quest’anno abbiamo scritto: i familiari delle vittime sapranno ancora una volta difendere memoria, verità e giustizia da riforme d’ispirazione piduista volte a distruggerle…

Stefano incomincia ad asciugarsi il sudore sulla fronte, che si mescola alle prime lacrime, coperte dagli occhiali da sole.

Conosciamo i nomi degli esecutori materiali: i terroristi fascisti Valerio Fioravanti e Francesca Mambro…Conosciamo i nomi dei depistatori: il Gran Maestro della Loggia Massonica P2 Licio Gelli, il faccendiere Pazienza, il generale Musumeci e il colonnello Belmonte, questi ultimi ai vertici del Sismi, il nostro servizio segreto militare…

Stefano ha gli stessi brividi di freddo di ventitre anni fa. Lo sa, lo sapeva fin da prima di partire per Bologna. Forse però ha fatto bene ad esserci. Forse l’estirpazione di un bubbone maligno passa per questa forma di catarsi.

Per completare questo triste quadro…mancano ancora i nomi dei mandanti e degli ispiratori politici della strage…E’infatti solo con la verità completa e l’accertamento delle responsabilità, che si chiudono gli anni di piombo…

“Ma a me chi me la ridà la mia meglio gioventù? Forse la verità completa? Chi me la ridà?”

Rimane intatta in noi la riconoscenza per tutte le persone comuni che, quel 2 agosto 1980, scavavano con le mani in quell’inferno di polvere, fumo, macerie e morti, per soccorrere i feriti…

Stefano per la prima volta guarda attentamente il palco. Il discorso è quasi terminato. Molte le persone vicino al microfono di chi sta parlando. Suoi coetanei, persone più anziane, parecchie donne…
Chiara!
Non può essere.
Eppure, non c’è dubbio.

Stefano sgomita per arrivare accanto al palco, come aveva sgomitato ventitre anni fa per essere vicino ai soccorritori, finchè non aveva visto Chiara in barella. Ed ora la rivede, con la sua solita espressione calma e materna, quasi non invecchiata. E’ a pochi metri da lei, non si è sbagliato. Non riesce quasi a reggere all’emozione. Tenta in tutti i modi di farsi riconoscere, ma lei sta guardando fissa chi sta parlando al microfono, facendo ogni tanto ampi e gravi cenni con la testa.
Il discorso è finito. Stefano applaude insieme a tutta la piazza. Deve bloccare Chiara, non può farsela sfuggire una seconda volta. La osserva in ogni suo movimento. Sta stringendo mani, sorridendo con un’espressione quasi ultraterrena. Ecco, forse sta per avvicinarsi, sta arrivando proprio verso di lui. Un forte groppo in gola. Come fermarla? Cosa dire? Alla fine, Stefano sceglie la via più semplice, sbarrandole la strada e guardandola con dolcezza.
“Chiara”.
“Sì”.
“Chiara, non mi riconosci?”
“No”.
“Sono Stefano, il tuo Stefano di più di vent’anni fa, dell’università, delle feste sui colli, delle recite nei cortili. Sono io”.
“Tu? Oggi?”
Stefano tenta di giustificarsi. “Lo so, è passato tanto tempo, io ho lasciato Bologna da quindici anni, ma non ti ho mai dimenticata. Sei sempre uguale ad allora…io sapevo che ce l’avresti fatta. Hai tanta grinta, lo vedevo quando salivi sul palco. Io…”
Chiara fa un cenno a Stefano e lui interrompe di botto quelle parole concitate e con poco senso. La guarda, aspettando una replica. Chiara gli sorride e gli dice “Io, purtroppo, non ricordo nulla”.
Stefano è scioccato. “Come!”
“E’ la verità. O meglio, ho solo vaghi ricordi. Io so chi sei, perché me ne hanno parlato le mie amiche e qualcosa mi è venuto in mente. Ed ora che ti vedo, ti riconosco. Ho delle foto tue, sei tu. Ma non ricordo molto altro”.
“Ma quando sei guarita?”
“Un anno dopo, ma sono stata via dall’Italia fino all’84. E poco dopo, ho conosciuto mio marito. Tu sei sposato?”
“Sì, mia moglie è di Roma, io vivo lì da quindici anni. Ho un bambino di nove”.
“Come si chiama?”
“Francesco”.
“Che bel nome”.
“Grazie. Ma…come non ricordi?”.
Stefano è imbarazzato. Non avrebbe mai pensato di ritrovare Chiara dopo ventitre anni, nella stessa piazza dove l’aveva perduta. L’emozione di averla ritrovata, però, ora deve fare i conti con lo stupore di avere davanti a sé una donna che per lui non è più un fantasma, ma è come lo fosse ancora. Priva di memoria, priva di ricordi, se non i fatti che in questi anni genitori e amici le avranno raccontato. Stefano la guarda con un’espressione di sconforto mista a rabbia. Chiara la nota e gli dice “Dev’essere stato bellissimo quel periodo”.
“Certo che lo è stato, Chiara. Lo abbiamo vissuto insieme ogni giorno, all’università, a teatro, a casa mia e tua, dagli amici, nei bar…porca miseria, se solo io riuscissi a farmi capire…ti posso rubare mezz’ora? Non di più”.
“Se per te è importante, volentieri. Io non ho molto da fare oggi. Mio marito è via con i miei figli, ne ho due. Vuoi mangiare qualcosa? Hai l’aria stanca”.
Stefano ride, anche se con amarezza. “Non sei cambiata, te lo giuro. Sempre materna, sempre gentile, sempre nel tuo mondo. Eri così anche a vent’anni”.
“Che cosa vuoi dirmi?”
“Parlare un po’ con te. Ne ho diritto, dopo così tanto tempo. O no?”
“Fammi salutare un po’ di persone e poi andiamo”.

***

Al ristorante, come prima cosa Stefano aveva voluto sapere da Chiara come mai facesse parte dell’associazione delle vittime della strage e lei gli aveva detto che, essendo una delle poche persone ritornate a vivere dopo molto tempo dalla tragedia, era importante la sua presenza. All’inizio non se l’era sentita di accettare, ma poi, spinta anche da suo marito, aveva incominciato a frequentare l’associazione. Inoltre, continuava a recitare, l’aveva nel sangue, anche se lo faceva soltanto nel tempo libero. Stefano le aveva poi raccontato del loro anno di vita insieme, delle loro gite a Riccione, delle passeggiate a San Luca e infine anche di quel giorno, quando lei sarebbe dovuta salire sul treno per Ferrara e lui, venti minuti dopo l’esplosione, si era precipitato con Davide in stazione.

Stefano parla con foga, cercando di contenersi per spiegarsi nel modo migliore. Chiara ogni tanto sorride, ogni tanto fa qualche timido commento, ma si capisce che non segue i discorsi di Stefano come lui vorrebbe. Si limita semplicemente a guardarlo quasi con compassione. Capisce che per lui sia importante averla ritrovata dopo così tanto tempo, ma non riesce, non può riuscire ad essere altrettanto partecipe.
Stefano se ne accorge, non avrebbe potuto non farlo.

“Chiara, cosa c’è?”
“Che cos’hai provato in quei mesi?”
“Ero disperato, perché avevo capito di averti persa. Non potevo raggiungerti in Francia, potevo pensare soltanto a che tu ti salvassi. Non è stato facile, mi devi credere. Non devi pensare che ti abbia abbandonata”.
“Non lo penso. Essendo le cose così com’erano, non c’era altra soluzione”.
“Chiara, mi spaventi. Sei talmente distaccata, talmente indifferente a cosa sto dicendo. Non so proprio cos’altro fare”.
“Stefano, ora basta. Che cos’altro vuoi? Secondo te è stato facile per me ricominciare da capo? Pazienza senza ricordarmi chi fossi tu, ma manco chi fossero mia madre e mio padre? Anni a guardare foto, a sentire racconti, a collegare pian piano tutto quanto, ma con migliaia di buchi neri. Mi sono rifatta una vita con fatica, ma ce l’ho fatta. Tu hai la tua. Ti presenti qui dopo ventitre anni, io accetto di dedicarti il mio tempo ed ora cosa pretendi? Di farmi ricordare ciò che vuoi?”
Stefano è mortificato. Chiara ha ragione, si è spinto troppo oltre. E’ sempre stato così: mai le mezze misure, sempre fino in fondo, ad ogni costo. Anche quando forse non era così opportuno farlo. Tenta di giustificarsi.
“Scusami, hai ragione. Vedi, io ho vissuto anni con questo peso, ho sempre tentato di seppellirlo, senza mai riuscirci. Ed ora ero così contento…mi sembra impossibile non poter ricordare”.
“E anche fosse possibile, a che servirebbe?”
“Perché dici questo, Chiara? Non sarebbe bello?”
“Certo. Sarebbe stato bello se io mi fossi ricordata di mio padre che mi insegna ad andare in bici senza dover per forza vedere una vecchia foto con lui che mi tiene attaccata al manubrio. Sarebbe stato bello se io mi fossi ricordata a memoria la mia parte in Molto rumore per nulla, così non avrei dovuto ristudiarmelo daccapo. Tante cose sarebbero belle, se fossero reali”.
“Ma lo sono state!”
“Non so fino a che punto, Stefano”.
“Cioè?”
Chiara fissa Stefano per un’ultima volta. Si alza in piedi, prende la borsetta che aveva appeso ad un bracciolo della sedia e lascia la scena con poche e misurate parole. “Stefano, non so chi tra i due sia il più reale. Sinceramente, da come parli, non mi sembra che sia tu. Non so se mi capisci. Ora scusami, ma devo proprio andare”.

Stefano rimane di ghiaccio. Non replica, non lo può fare. Guarda Chiara allontanarsi di spalle, con la sua andatura calma e aggraziata di sempre. Si mette le mani nei suoi pochi capelli. Un cameriere appoggia sul tavolo il conto e gli chiede con molto tatto se fosse tutto ok. Stefano toglie la testa dalle mani, lo guarda e gli risponde di sì, abbozzando un sorriso.
“Non so chi tra i due sia il più reale”…aveva detto Chiara.
Chi lo è di più? Chi ha ricominciato una vita daccapo, riconquistando affetti, rapporti sociali, sicurezza di sé partendo da una pagina completamente da riempire? Oppure chi quella pagina ha voluto a tutti i costi provare a riscriverla insieme a chi non poteva, per forza di cose, aiutarlo a compiere questo percorso all’inverso?

La realtà di Stefano non può che essere quella che sta vivendo e che continuerà a vivere quando domani mattina tornerà a Roma con l’Eurostar delle dieci e quaranta. Il resto sono ricordi. Alcuni meravigliosi. Uno purtroppo tragico. Il 2 agosto 1980 è una pagina triste della storia italiana, non soltanto della vita di Stefano. Questa data, però, nella sua vita come in quella di Chiara, ha fatto da spartiacque. C’è stato un prima e un dopo. E il prima non sarebbe mai più tornato. Ora lo ha definitivamente compreso.
Stefano accende il cellulare, che ha spento da quando alle 10.25 è iniziato il discorso nel piazzale della stazione. Un breve suono annuncia la presenza di un messaggio in segreteria. Sa benissimo chi lo ha lasciato. Lo ascolta. E’ Paola, che le dice di farsi sentire e di tener duro, come soltanto lui sa fare. Stefano manda un bacio allo schermo del telefono, come ci fosse Paola davanti a sé. Mette i soldi del conto sul tavolo, accanto alla ricevuta. Si alza, saluta il cameriere, esce dal ristorante e non trattiene le lacrime, coperto dagli occhiali da sole.



N.B. I corsivi riportano frammenti del discorso pronunciato il 2 agosto 2003 dal presidente dell'Associazione Vittime della Strage di Bologna (ndA.)


2 commenti:

  1. Sempre toccante e profondo questo tuo racconto: io ebbi il privilegio di leggerlo quando ancora non era stato pubblicato.

    bravo!

    Antonio

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    1. Ambientato in 2 città che ben conosci :) E tutto sommato, anch'io.
      Sei stato e sei un lettore attento e te ne sono davvero grato

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