venerdì 6 luglio 2012

Filadelfia melting pot

Presentato per i 50 anni del primo supermercato a Torino. Vai alla fotogallery dello slideshow durante il mio reading



Al bancone di un bar di via Tunisi a Torino, tre uomini stanno bevendo ognuno il proprio caffè.Valentino ha quasi sessant’anni, è un ex ferroviere da poco in pensione, parla in dialetto con i suoi amici che incontra ogni pomeriggio per lunghi e litigiosi tornei di scopa all’asso, legge come ogni buon torinese la Busiarda (1) e in particolare lo “Specchio dei tempi” (2) ed è, suo malgrado, tifoso del Toro fino alla morte, anche se non si diverte più dal derby del 3 a 2 negli anni ’80. Il suo nome di battesimo non è casuale. Nel maggio del ’49, tragedia di Superga, sua madre era in cinta di lui. Suo padre, ammiratore del Grande Torino, andò come tutta la città ai funerali di quella squadra che entusiasmò il mondo e che dopo il disastro aereo divenne mito. Quel giorno decise, in onore di capitan Mazzola, che suo figlio (giacché, nonostante le ecografie ancora non esistessero, sapeva in cuor suo che sarebbe nato maschio) lo avrebbe chiamato Valentino. E suo figlio aveva sempre abitato in quel quartiere, a un passo dal Filadelfia, ereditando dal papà sangue granata, andando a seguire gli allenamenti quando non faceva turni di mattina, piangendo quando quello stadio zeppo di ricordi venne abbattuto. (...)


Ciro di anni ne ha quarantacinque, il nome tradisce le sue origini ed è uno dei tanti figli del baby boom e di quell’immigrazione dal sud che, partendo con un paio di valigie di cartone, si è piano piano, con grande fatica, inserita nel tessuto sociale della città che per molti decenni ha mostrato all’Italia un unico lato dei suoi molteplici, quello più produttivo anche se più grigio, quello che dai cartelli “non si affitta ai meridionali” si è trasformato in un unico intercalare di “mò” e “minchia” che si ascoltano, passeggiando sotto i portici, anche dalla bocca dei torinesi. Ciro torna sempre a Napoli per natale e dice che a Torino c’è sempre la nebbia, anche in questa giornata di maggio assolata e senza una nuvola. Come molti torinesi del sud, è tifoso della Juve e sfotte regolarmente Valentino per il suo vivere di ricordi gloriosi. Ha sposato una ragazza di Rivoli, vive nel quartiere Filadelfia da dieci anni e ha due figli con un accento assolutamente inassociabile a qualsiasi regione.

Melak ha trent’anni, è partito senza un soldo in tasca dall’Eritrea insieme a suo fratello, arrangiandosi per i primi due anni come capitava, vivendo per i primi tempi in una stanza a Porta Palazzo, riuscendo a uscire da un paio di brutte storie per poi finalmente aprire qualche mese fa una lavanderia a gettone nella via a fianco. Avere suo fratello accanto a sé lo ha aiutato a sentirsi meno solo e a reagire alle tante difficoltà. E’ molto legato alla sua famiglia, anche se si è abbastanza “occidentalizzato” e non ci pensa nemmeno ad ascoltare i continui richiami dei suoi a sposare una ragazza eritrea e a fare tanti figli. Ci ride sopra e per il momento, essendo pure carino, si diverte con qualche ragazza quando può.


I tre si conoscono da tempo, come quasi tutti in zona. Soltanto Valentino è nato lì, ma anche Ciro e Melak è come facessero parte del quartiere da sempre, pur criticandolo, pur a volte patendolo. Si vive lì, si lavora lì, si superano le reciproche diffidenze davanti ad un caffè. Quando Valentino fa il cantastorie e incomincia a ricordarsi dell’erba dei prati che invadeva le rotaie del 19, Ciro e Melak lo sfottono, ma lo
stanno ad ascoltare. E allora Ciro si mette a parlare dei mille artigiani dei vicoli di Napoli amici dei suoi nonni.  E Melak incomincia a descrivere il villaggio dove abitava e i chilometri per raggiungere un pozzo d’acqua. Mai più Valentino avrebbe pensato di ascoltare i racconti di qualcuno dell’Eritrea, che conosceva soltanto perché sapeva essere stata una colonia dell’Italia. Potenza del mondo globale, quando si integra senza far danni nella realtà locale.


“Lo sai – dice Valentino a Ciro – quando ho visto per la prima volta la pummarola? Al supermercato che c’era proprio qui a fianco, cinquant’anni fa”.
“Un supermercato?” rispondono in coro Ciro e Melak. “Ma dove adesso c’è il discount?”
“Certo! Prendeva pure quello accanto, dove c’è anche la banca. Il primo aperto a Torino, proprio qui, dai Garosci. Mi ricordo la coda per andare a vederlo”.
Ciro lo incalza. “Ah, come fanno quelli fermi in macchina per vedere gli aerei atterrare a Caselle?”
“Dì, napuli (3), fai meno lo spiritoso! Era cinquant’anni fa, noi andavamo a fare la spesa soltanto ai mercati generali. A casa tua in bassa Italia manco c’era la luce per strada”.
“Eeeehhhhh, mò esagera! Ti rispetto solo perché sei più vecchio”.
Valentino fa finta di dare uno schiaffo a Ciro e tutti e tre ridono. Il torinese prosegue. “Guarda che non sto scherzando, Ciro: i tuoi dove abitavano?”
“A Madonna di Campagna”.
“Ecco. E cosa pensi che facevano quando tu manco sapevi camminare, balengu (4)? Te lo dico io: si prendevano il 19 e venivano a far la spesa ai mercati generali. Quelli di una volta, che adesso c’han fatto tutta la roba per le olimpiadi. Tutte le cose che noi non conoscevamo, tipo le cime di rapa, il pesce di mare, gli spagnulin (5), hanno iniziato a trovarsi lì ed io le ho poi viste da gagnu (6) al supermercato dei Garosci. Tutta roba esotica per me, come adesso ste poltiglie puzzolenti che mangiano sti maruchin (7) come questo qua” e Valentino indica Melak, che non se la prende e comincia a parlare come un nordafricano appena arrivato in Italia. “Ehi amico, io venire da Eritrea, non Marocco. Non Tunisia, anche se qui via Tunisi. Bisogno lavoro, otto figli a casa”.
“Prendi in giro i tuoi amici, bravo! Guarda che anche tu eri così quando sei arrivato”.
“Lo so. Infatti sai bene che aiuto tanti ragazzi. Allora, com’era questo supermercato?”
“A me piaceva tanto, avevo dieci anni e figurati per un bambino tutti quei banchi con la frutta, la carne, tutti colorati. Mia madre era preoccupata per i prezzi e perché non si fidava del peso, ma poi aveva iniziato ad andarci ed io le dicevo sempre di portarmi con lei. Una cosa proprio non la capiva: i surgelati. Poura dona (8), ha continuato finché è campata a lavare la verdura perché diceva che fresca era più sana. Mio padre, invece, si rifiutava di andarci e diceva sempre che non eravamo in America e che quei negozi erano una rovina. Buonanima, a l’a mai capì niente (9), a parte di calcio”.
“Non sfottere tuo padre – gli risponde Ciro – ti ha dato un nome importante e dovresti esserne orgoglioso”.
“Certo che lo sono. Spero solo, quando sarò davvero vecchio, che mia figlia mi assista, se no passerò l’estate dentro i centri commerciali per non patire il caldo”.
“Ti starebbe solo bene, pulentun (10), per tutte le volte che i tuoi compaesani, te compreso, mi han chiamato terrone”.
Valentino mima di nuovo lo schiaffo, Melak ride e dice “Oggi è una cosa così normale andare al supermercato…cinquant’anni fa voi torinesi avete trovato i prodotti del sud Italia e adesso io ci trovo quelli del sud del mondo: il cous cous, il riso profumato, la papaya. Mi sembra quasi di essere a casa”.
“Perché mò – dice Ciro – a casa tua ci stanno i supermercati”.
“Certo, che ti credi?
“Ma quando ci torni in Eritrea la prossima volta?” gli chiede Valentino.
“A natale, ci sto due settimane. Dai, vieni pure tu!”.
“Sì, e dove me la faccio la barba? Al pozzo?”
“Guarda che, a parte i supermercati, ora abbiamo anche l’acqua in casa”.
Ciro si mette a ridere e risponde a tutti e due: “Io a natale me ne vado a Capri, mi faccio fare una foto davanti ai faraglioni e vi mando a stendere una volta per tutte”.


Il barista, che come i parrucchieri e i medici ne sente ogni giorno più della redazione di cronaca nera della “Stampa”, li guarda, scuote la testa e sorride. Ogni giorno quel piccolo angolo di Torino, dove si allenava la squadra più gloriosa degli anni ’40, diventa uno spicchio di mondo, con persone di differente etnia e ceto che si incrociano proprio come iniziò ad accadere dentro al primo supermercato aperto dai Garosci cinquant’anni fa. Oggi nel quartiere ci sono gli ipermercati moderni, che però ancora convivono con la trattoria piemontese che serve gli stessi clienti della lavanderia a gettone, o con il calzolaio aperto dagli anni ’60 che è a fianco del negozietto dove si può chiamare casa, che vuol dire Brasile, Egitto, Filippine. Anche tra le mura delle case popolari vicine al Filadelfia si respira un’aria nuova. Anche nelle banche di via Tunisi si pagano bonifici indirizzati all’Asmara o a Tripoli. Anche tre uomini totalmente diversi tra loro come Valentino, Ciro e Melak possono trovare dei punti in comune. Qui in via Tunisi, Torino, Italia.


(1) la Bugiarda, come i torinesi chiamano in gergo il loro giornale “la Stampa”
(2) rubrica molto letta di lettere alla redazione
(3) per i torinesi tutti i meridionali erano chiamati “napuli”
(4) cretino, in dialetto
(5) peperoncini, in dialetto
(6) ragazzino, in dialetto
(7) tutti gli immigrati dal nord Africa sono chiamati per semplificare “maruchin”
(8) povera donna, in dialetto
(9) non ha mai capito niente, in dialetto
(10) polentone, in dialetto

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